lunedì 3 aprile 2017

Mark Rothko


- Sentite, ne ho piene le palle di queste cazzate - intervenne Max alle spalle del gruppo -e oltretutto credo di star cominciando a sprofondare nell’asfalto.
Di fatto il pomeriggio era piuttosto caldo perfino per il mese di luglio. Luca, Flavia e Marco-Stanca stavano in piedi all’angolo della via di fronte a uno dei totem pubblicitari della mostra, intenti a fissare la gigantografia di una tela di Mark Rothko da dietro le rispettive paia di occhiali da sole contraffatti. Il sole martellava uomini, donne, auto, alberi e volatili con la foga di un operaio stradale durante il primo turno.
- Stà zitto che mi sconcentri - fece Luca.
- Deconcentri - lo rimbeccò Flavia.
- È uguale Fla.
- Guarda Luca - azzardò Marco-Stanca - qui prende il 3G. Se volessimo farla fuori, visto che mi si sta arrostendo il cervello, io faccio una ricerca in google e vi dico-
- Assolutamente no - interruppe Luca -dobbiamo arrivarci da soli.
- Forse è un tramonto.
- Banale - commentò Flavia.
La voce di Max giunse dalle retrovie accompagnata da una sbuffata di fumo di sigaretta.
- È un’esplosione nucleare.
- Piantala, scoppiato. È qualcosa di introiettivo, per forza.
- Introspettivo - corresse Flavia.
- È uguale.
- No che non lo è… vabbè abbiamo capito lo stesso.
- In che senso introiettivo? - fece Max avvicinandosi.
- Adesso t’interessa l’arte? - gli fece Marco-Stanca.
- Guarda che io sono un purista del colore.
- Fai l’imbianchino - sottolineò l’altro.
- Il colore, ce l’ho, il colore dice qualcosa sulla vita di questo tizio - fece Luca schioccando le dita.
- Per me tu te lo sei annusato, il colore, insieme al diluente - disse Max ridendo grottescamente - andiamo?
- E piantala, purista del colore del cazzo, per una volta che facciamo qualcosa di elevato-
- Elevato! Questa è da raccontare! Senti, facciamola finita. Ci verrà un colpo di calore, io ho appena pranzato, ti ricordo.
- Io… - tentò Flavia.
- E allora?
- Sentite, forse…
- E allora vomito, anzi, ti vomito addosso, così te lo faccio io il quadro astratto!
- Sei un deficiente. Forse dovremmo provare a pensarci dopo fumata una bomb-
- No Luca, senti questa, il contorno giallo è la vita - disse Flavia disegnando un cerchio con la mano davanti a sé.
- Io ci sto, a patto che andiamo all’ombra.
- Zitto. Fla, dicevi?
- E gli altri due colori rappresentano i desideri e le colpe.
- Come i desideri e le colpe? Quale colore i desideri e quale le colpe?

Ma Flavia rispose solo “Non lo so”.
Il gruppo ammutolì e rimase in silenzio per lunghi, interminabili, secondi. Chi avesse potuto guardare al di sotto delle lenti scure degli occhiali avrebbe forse potuto cogliere un’ombra di dubbio primordiale attraversare loro gli occhi come una nuvola solitaria.
Poi Marco-Stanca si portò una mano al taschino della camicia e ne tirò fuori un minuscolo sacchetto di plastica.
- Chi ce l’ha una sigaretta?

martedì 21 marzo 2017

Giornata di posta

“Ninì, hai detto niente vero?”
Cosa credeva il Giulio Ghezzi, che fossi matto? Il direttore sì, lui aveva parlato della legge 15 per convincermi a dire tutto ma io gli ho risposto “Direttore va bene, ma io non la posso proprio aiutare e anche se potessi guardi che non sono mica stupido, lo so che non si può fare il pentito con queste cose”. Ma lui ha risposto niente, che lo sapevano già che c’ero anch’io nel corridoio con l’Alessi e che c’erano altri due detenuti che avevano testimoniato. Poi s’era avvicinato l’agente Marino, che fa sempre quello gentile, s’era abbassato per venirmi all’orecchio che io ero seduto davanti alla scrivania del direttore e mi fa “Dai Ninì fa’ il bravo, almeno ce lo togliamo dalle palle quel camorrista di merda.” Poi aveva sollevato lo sguardo verso il direttore, che stava lì seduto con le mani grassocce sulla cartellina di pelle, da parte alla macchina da scrivere, e gli fa: “All’Asinara lo mandano stavolta, vero?” e il direttore inclina la testa da una parte con la faccia cortese e gli risponde che non lo può dire, ma che farà di tutto per far trasferire l’Alessi in una struttura più sicura.
Ma io mica sono matto, gliel’ho detto anche al Giulio Ghezzi la sera, quando l’agente Marino mi ha riportato in cella.
“Ninì, hai detto niente vero?”. Era tutto bianco come la calce poveretto, che aveva paura che l’Alessi venisse ad aprire la cella di notte e ci tagliasse la gola anche a lui mentre dormiva, solo perché stava dentro con me. Col cavolo che gli ho detto qualcosa, gli ho risposto.
Anche se in realtà ho visto tutto io, perché ero lì quando è successo.
La mattina sembrava tutto regolare. Erano passati con la posta ma io non avevo ricevuto niente, che fuori non ho nessuno e la mamma anche se viene a trovarmi ogni tanto dice che non mi vuole più in casa quando esco, poi gli altoparlanti come sempre han detto “tutti i detenuti escano dalle celle e si dirigano verso il cortile” e allora siamo andati fuori, io e il Giulio Ghezzi, e siamo andati in cortile a fumare una paglia insieme al nostro gruppo.
Il nostro posto è proprio davanti a quello dove si mettono i politici, che da noi sono solo cinque, tre rossi e due neri che vanno d’accordo come vecchi compagni di naja, vai a capirli. C’era il piellino, Glauco, che non è il suo vero nome ma il nome di battaglia che aveva fuori con quelli di Prima Linea, che stava seduto per terra e teneva una busta aperta con tutte e due le mani e sorrideva come un bambino. Poi la metteva via, poi la faceva vedere a quello accanto, poi la rimetteva via, la riguardava e via così. A me stanno simpatici Glauco e gli altri politici perché sono sempre tranquilli e sereni, anche se poi a pensarci bene hanno sparato a più gente loro che tutti gli altri carcerati messi insieme. Glauco dicono che ha preso un ergastolo perché ha ammazzato a un direttore di fabbrica, poi l’han condannato anche per concorso in due tentati omicidi. Però dicono anche che deve uscire entro l’anno, vai a capirli.
Insomma, si stava tranquilli ad annoiarsi come sempre ma poi è arrivato l’Alessi e aveva una faccia che faceva paura. Più del solito intendo, perché l’Alessi mi ha sempre fatto una paura vacca e oltretutto da quando l’han trasferito qua m’è sempre stato addosso perché dice che m’ha preso in simpatia e crede di farmi un favore a stare con me. Lui è qua per rapina aggravata, anche se lui dice che “È tutta na cazzata” e che devono ancora fare il processo ma che deve stare dentro lo stesso per la carcerazione preventiva. “Per colpa di quei figl’ e puttana dei terroristi” dice lui, perché la legge Reale l’hanno fatta per colpa loro, continua, anche se lo sanno tutti qua dentro che l’Alessi stava in mezzogiorno con la camorra e c’ha l’anima più sporca delle unghie di una strega, fa sempre paura a tutti con quel suo sorrisaccio a denti stretti, che quando ti guarda così non capisci se ti sfida o se ha già deciso che vuol farti qualcosa di brutto. “È tutta na cazzata” va avanti a dire ma io, potessi morire, l’ho visto coi miei occhi quello che ha fatto nel corridoio quel pomeriggio. Ce l’ha a morte coi terroristi, che lui dice che sono tutti infami perché di fuori ammazzano la gente per niente e poi, al carabiniere che li arresta, gli dicono “Mi dichiaro prigioniero politico” così vanno in galera e lì per avere gli sconti fanno i pentiti e infamano tutti i loro compagni, gli amici e anche quelli che non c’entrano niente. A me di tutte queste cose non frega niente perché io sono finito qua per furto d’auto, cioè, mi spiego? Avevamo rubato una Giulia e scappando abbiamo investito un carabiniere al posto di blocco, ma ci siamo fermati subito e poi guidava il Filippo Milesi, io ho preso solo due anni ma lui è finito a San Vittore e ne ha ancora per cinque o sei, anche se il carabiniere s’era forse rotto un braccio e al processo ci hanno detto che aveva già ripreso il servizio. Insomma ci sono finito così ecco, solo che adesso fuori non ho più nessuno e spero di non finire come il Giulio Ghezzi, che fuori prendeva l’eroina e infatti è tutto bianco e magro come un chiodo.
È arrivato l’Alessi e gli altri hanno detto che dovevano andare al laboratorio, ma era una scusa perché avevano capito che si metteva al brutto. Insomma rimango da solo con l’Alessi che mi chiede una sigaretta e gliela do, se la fuma e si mette a raccontare tutto incazzato che gli è arrivata una lettera dell’avvocato, che il processo è rimandato fino a marzo perché c’è lo sciopero dei tribunali. Era proprio incazzato e avevo paura anche io, anche se non mi ha mai fatto niente di male perché faccio sempre quello che vuole lui. Poi vede quel Glauco tutto allegro con la sua letterina e lì non ci vede più e dice che lui a quel figlio di puttana gli cava gli occhi se continua a ridere. L’ha già detto tante volte ma non lo fa mai perché secondo me ha paura anche lui, che si sa mai che quando esce, casomai un giorno dovesse uscire, un commando di Prima Linea lo va a cercare e gli spara alle spalle come a un daino.
Solo che stavolta è tutto diverso, non ci voleva che gli arrivava la lettera dell’avvocato proprio lo stesso giorno di quella lì che gli metteva l’allegria a Glauco. E infatti passa poco che l’Alessi va là, in mezzo a tutti gli altri terroristi assassini, e gli chiede a Glauco che cazzo ha da ridere “come uno stronzo”. Uno dei neri si alza e gli dice di cambiare aria che è meglio ma l’Alessi, incredibile, lo ignora e dice ancora a Glauco che gliela facesse vedere a lui quella lettera che lo faceva ridere tanto, che anche lui voleva ridere.
Glauco è uno che ha ammazzato e ha lo sguardo freddo come il ghiaccio, però stavolta mentre dice all’Alessi di farsi i cazzi suoi lo sento che ha perso un po’ di smalto. Un po’ come quelle litigate fra gatti, mi spiego? Alla fine ce n’è sempre uno che abbassa il pelo per primo e stavolta era stato Glauco. Alla fine l’Alessi gira i tacchi e, senza guardare Glauco, gli dice “Questa la paghi, stavolta le paghi tutte”.
I politici si sono messi a insultarlo ma si vedeva che non gliene fregava niente, quelli lì c’hanno altro per la testa, vai a capirli, io allora ho fatto finta di niente e sono andato al laboratorio con gli altri. Però dopo pranzo l’Alessi viene da me e vedo che tiene la mano a pugno dentro i calzoni e mi fa “Vieni con me che t’insegno qualcosa della galera” e mi tira per la maglia, usciamo dal refettorio e andiamo nel cortile, dove ci sono quattro o cinque carcerati e Glauco da solo che si fuma una paglia in piedi, sempre guardando dentro quella sua busta, allora lì m’è venuta una paura brutta che toglieva il fiato. L’Alessi mi mette una mano sul petto per fermarmi e guarda dritto verso Glauco con quel suo sorriso a denti stretti che fa paura ai lupi, solo che Glauco non se ne accorge e allora l’Alessi gli fa un fischio e quello si gira e lo vede. Allora gli cade sulla faccia lo sguardo di uno che gli è appena morta una persona cara, così si gira verso l’altro lato del cortile e s’incammina per il corridoio che porta ai bagni. L’Alessi mi fa “Andiamo” e le mie gambe gli vanno dietro anche se io non voglio, arriviamo all’ingresso del corridoio e mi dice di star lì. 
Nel corridoio non c’è nessuno a parte le muffe nere negli angoli, l’Alessi si mette a correre silenzioso come un gatto mentre vedo che toglie la mano dai calzoni e sfila un punteruolo lungo un braccio, di quelli per il legno, che tiene col fazzoletto. Arriva addosso a Glauco, gli mette la mano sulla spalla e gli fa “Oh!”. Quando si gira glielo infila dentro tre volte, soc soc soc, dall’addome su fino al petto, e all’ultima glielo lascia dentro. Io volevo guardare da un’altra parte ma ero diventato di gesso. Il poverino non ha più il fiato neanche per dire niente, la camicia gli diventa tutta scura in un attimo e crolla giù come un palo. Allora l’Alessi, veloce come una faina, gli strappa di mano la sua letterina guardandolo negli occhi e la apre, ci guarda dentro e poi tira giù una bestemmia di quelle brutte e la butta per terra. Poi si gira e viene verso di me, che mi veniva da vomitare perché ho pensato “Stavolta m’ammazza”. Invece mi fa “Te non dici niente o t’apro come un porco capito? Va di là” e fa segno con la testa verso le scale in fondo al corridoio, quelle che vanno alle celle del primo piano, poi torna nel cortile tranquillo, aggiustandosi la patta come se avesse appena fatto una bella pisciata.
Soc soc soc. Io vado di là e passo davanti a Glauco poveretto, che sta lì per terra fermo e immobile come una statua. Vedo lì accanto la sua letterina, allora senza neanche pensarci la raccolgo e me la porto via, vado su al primo piano alla mia cella e mi butto in branda, che tremo tutto come un pioppo. Dopo un momento sento gli altoparlanti che dicono a tutti i detenuti di tornare nelle loro celle e gente che urla, arriva il Giulio Ghezzi che mi dice “Ninì, ma cos’è successo?”, poi però mi vede in faccia e capisce tutto allora non dice più niente. Io intanto continuo a pensare a quante volte l'avrà fatto, l’Alessi, di ammazzare la gente così, che mi viene freddo alla schiena. Allora mi accorgo che ho ancora la letterina di Glauco in mano, l’apro e ci guardo dentro e c’è solo una fotografia del mare con una ragazza in costume che legge un libro a pancia in giù sul cemento della banchina. La giro e dietro c’è scritto a penna “Esci presto, ci manchi tantissimo!”, firmato Lara.
Fino a sera comunque non m’è venuto a cercare nessuno. Neanche dopo non m’hanno fatto niente perché i testimoni alla fine non c’erano, anche se l’Alessi ho saputo che l’hanno trasferito lo stesso, spero proprio di non vederlo mai più quel brutto diavolo.
Mi mancano solo sei mesi ma ho un po’ l’angoscia perché dopo non so proprio che farò. Fuori non c’è nessuno che mi aspetta. Ogni tanto tiro fuori la foto di Glauco e cerco di capire se la ragazza è la sua donna, anche se mi sembra troppo giovane, o la sua bambina, anche se lui non mi sembrava abbastanza vecchio da avere una figlia grande.
Chissà se ha saputo cosa è successo al suo Glauco, e che non può più andarla a trovare al mare. La busta ha il francobollo francese e anche l’indirizzo è scritto in francese. Se riesco a capire che posto è magari ci faccio un giro, intendo quando esco. Magari è ancora là.
Tanto fuori non c’è nessuno che mi aspetta.



sabato 6 agosto 2016

L'ultima casa

Il giorno che andammo alla casa arancione eravamo io, mio cugino Luca, Massimino e Sandro. Eravamo usciti in bici subito dopo i cartoni delle tredici per ritrovarci in Piazza San Giovanni, come ogni pomeriggio. Girovagammo un paio d'ore per le strade e i campi intorno al paese, dopodiché ci trasferimmo al parco giochi di Viale della Pace e, infine, salimmo al bar dell'oratorio per fare due partite ai videogiochi e comprare i ghiaccioli. Rimanemmo per molto tempo seduti sui gradini, fuori dal bar, a parlare del genere di cose che all'epoca consideravamo di importanza capitale: Tartarughe Ninja, Kenshiro, i nuovi videogiochi al bar Iside.
Fu Luca il primo a parlare della casa arancione. Sosteneva che fosse stata costruita sopra un cimitero abbandonato. Ebbi il forte sospetto che si trattasse di balle belle e buone, perché una storia simile l'avevo già sentita da qualche parte.
-E nessuno è mai riuscito a dormirci per più di una notte.
-Perché? -chiese Sandro, che era sempre l'ultimo a capire le cose
-Sei scemo? Perché ci sono i fantasmi dei morti! -gli risposi io
-Non lo so se ci sono i fantasmi, ma mio cugino mi ha detto che succedono cose di paura
-Tipo?
-Scende il sangue dai rubinetti... e si sente la musica di notte
-Se si sente la musica sarà qualcuno dei vicini con la televisione o la radio accesa -lo rimbeccò Massimino, che era fin troppo razionale già da bambino.
-Ma no! Non ci sono altre case vicino alla casa arancione e la musica che si sente è come qualcuno che suona il flauto o il pianoforte dentro alla casa!
-Ma non spararle
-Giuro!
-Io non ci credo che ci sono i fantasmi dei morti -insistette Massimino
-Neanche io -gli fece eco Luca- ma andiamo a vederla! Tanto il cantiere è aperto, ci sono passato davanti con mio papà l'altra mattina.
Io fui subito d'accordo -Andiamo a vederla! 
-Sì andiamo! -mi rispose Luca
Ma Massimino attaccò -Io non so se vengo.. bisogna passare il provinciale..
-Dai -lo rimbeccò Sandro- non lo dice nessuno a tua mamma se attraversi il provinciale!
Mentre pronunciava queste parole Sandro agitava davanti a sé l'indice della mano destra, come se volesse scrivere i suoi pensieri nell'aria. Faceva sempre così quando qualcosa lo eccitava.
-No non lo so dai.. 
-Dai andiamo adesso, altrimenti lo so già che domani non ci andiamo più
-Dai Massi andiamo tutti, vieni anche te, altrimenti mia mamma ti vede tornare prima di me e mi chiede dove sono stato
-Va bene dai.. veloce però
-Ok promesso -dissi io- prima che inizia a tramontare torniamo
-Ok andiamo
In meno di un minuto eravamo già lontani, giù per la discesa del Viale della Pace e dritti attraverso Piazza San Giovanni, deserta in quella calda ora pomeridiana. Attraversammo l'incrocio con Via dei Caduti a chiodo e senza nemmeno guardare, una precauzione che a quell'età ignoravamo di frequente.
Ricordo l'euforia di quella corsa in bici; non sentivamo la fatica, non sentivamo il caldo, non sentivamo le gambe né le braccia. Ero tutto teso verso l'avventura imminente, immerso, affogato nell'estate calda e gialla del nostro piccolo mondo. In quegli anni eravamo ancora un piccolo comune di mille, milleduecento abitanti, eppure -complice il fatto che all'epoca ci allontanassimo dal paese solo per andare in vacanza durante l'estate- il territorio dei dintorni mi sembrava immenso e sterminato.

Per farla in breve, non c'erano molte ragioni per lasciare i confini del paese, ma quel giorno era diverso: per arrivare alla casa arancione avremmo dovuto attraversare la strada provinciale che delimitava il nostro territorio a sud, e avvicinarci al brullo confine con il paese vicino. Raggiungemmo il provinciale passando esattamente di fronte alla casa dei miei genitori, ma io sapevo che quel pomeriggio mia madre l'avrebbe passato da mia nonna e non mi preoccupai di essere visto.
Fermammo le bici sulla linea di arresto che dava sul provinciale, ciascuno strisciando la ruota posteriore, quattro tracce nere sull'asfalto rovente. Di fronte a noi le auto passavano pigramente ma con fin troppa frequenza. Alle nostre spalle si stendevano i campi di mais dorato e molto, molto più indietro, le radici delle colline con i loro boschi intricati. Dall'altro lato del provinciale c'era una distesa incolta e piena di erbacce ingiallite dalla calura, chiazzata di macchie bruciate. Poco più a est c'era un campo di granoturco e, più avanti, la casa arancione. Oltre la casa arancione c'era il cartello con il nome del paese sbarrato da una linea rossa. Ricordo che il sole a quel punto cominciava già a tingersi di rosso, e la cosa mi stupì. Non portavamo orologi ma regolavamo i nostri ritmi biologici sulla lunghezza dei giorni attraverso le  stagioni, così sapevamo perfettamente quando era ora di tornare a casa. Poco prima, quando eravamo partiti dal Viale della Pace, avrei giurato che fosse molto più presto, intorno alle diciassette, ma se il sole cominciava già ad incamminarsi verso il tramonto dovevano essere almeno le diciannove.
-Facciamo in fretta -dissi.
Aspettammo che una grossa autocisterna ci passasse davanti ed attraversammo. Prendemmo a sinistra e pedalammo in direzione del campo di granoturco. In pochi minuti raggiungemmo uno spiazzo accanto alla strada, delimitato da un muro di pietra grezza con una vasta apertura sul lato destro. Questo varco ci diceva che in un futuro molto prossimo quell'accesso sarebbe stato sbarrato da un cancello di grandi dimensioni. Ora però era aperto, e nei dintorni non c'era nessuno a impedirci di attraversarlo.

La casa arancione era un cantiere interminabile, nessuno di noi ricordava quando erano cominciate le ristrutturazioni e nessuno ci aveva mai visto nessuno lavorare. Eppure i lavori, per quanto lentamente, procedevano: lo scivolo in cemento che dai nostri piedi scendeva alla rimessa interrata era una realizzazione recente. La casa arancione ci guardava dritto in faccia, le finestre prive di imposte, assolutamente inespressive. Il prato sul retro si apriva direttamente sul campo di granoturco, seminato fitto fitto e con i fusti verdi già alti due metri.
-Eccola -dissi.
Per qualche istante rimanemmo in silenzio ad osservare la casa. Guardai il sole alla mia destra: aveva già raggiunto l'orizzonte. "Strano" pensai.
-Dai allora, chi scende per primo? -chiese Luca
-Sei tu che hai tirato fuori questa storia -dissi- scendi te!
-No io non scendo!
-Ma cosa, hai paura adesso?! Scendiamo tutti insieme allora!
-No io non vengo!
-Neanche io
-Io non vengo e poi è tardi dobbiamo tornare!
-Che cagainbraga! Avete parlato tanto, adesso vado giù io così vedete che non c'è proprio niente di strano in questa casa! Sandro, tienimi la bici.
Scesi dalla bicicletta porgendo il manubrio a Sandro. Tutti gli altri se ne stavano in sella con le mani sul manubrio, un piede a terra e l'altro sul pedale, pronti a scattare al primo segnale di pericolo. Una formazione da fuga che assumevamo del tutto spontaneamente ogni volta che stavamo per combinare qualcosa di grosso.

-Allora vado.
Mi voltai e cominciai  a scendere la rampa di cemento. Diedi uno sguardo intorno, scendendo. Una betoniera arrugginita e incrostata se ne stava abbandonata fra le erbacce alla mia destra come la carcassa di un animale preistorico. Alla mia sinistra un marciapiede in cemento grezzo correva intorno alla casa e, più sotto, c'era l'apertura del box auto priva di basculante, chiusa soltanto da un cellophane inchiodato al falso telaio in legno. Raggiunto il fondo della rampa mi fermai. Sentii un fruscio alla mia sinistra. Il cellophane che chiudeva il box stava ondeggiando, avanti, indietro, sollevandosi a poco a poco sempre di più. Qualche insetto aveva iniziato a frinire, nei campi. D'un tratto udii un rumore più deciso e irruento, come di fogliame che viene spostato. Voltai di scatto la testa e, in un istante che durò un eternità, vidi un'apertura allargarsi nel granoturco arrossato dal tramonto, ed un'enorme massa nera balzarne fuori. Il cane cominciò ad abbaiare mentre correva verso di me. Il tempo, che sembrava essersi dilatato, riprese a correre a tutta velocità.

Senza nemmeno accorgermene mi ritrovai a risalire la rampa correndo a rotta di collo, mentre l'abbaiare del cane si faceva sempre più forte e frastornante. Ebbi l'impressione che stesse abbaiando in un megafono. Feci appena in tempo a vedere la mia bicicletta cadere a terra mentre gli altri ripartivano a razzo gridando come matti. Nell'abbaiare furioso del cane si distingueva anche un altro suono, secco e frenetico: il rumore delle zampe sul cemento. Quello dev'essere stato lo scatto più grandioso della mia carriera atletica perché incredibilmente raggiunsi la cima della rampa indenne e con un solo movimento rimisi in piedi la bici, saltai in sella e diedi la prima poderosa pedalata. Le altre seguirono rapide come lo stantuffo di una locomotiva. L'abbaiare calò d'intensità e capii di averlo seminato. Avevo quasi raggiunto i miei compagni e mi voltai a guardare indietro: quel cane, grande e tutto nero, mi guardava dallo spiazzo accanto alla strada dov'eravamo stati tutti e quattro pochi istanti prima. Non abbaiava più ma nella sua espressione c'erano disappunto e disprezzo. Non ho mai dimenticato quello sguardo, tanto che ancora oggi occupa un posto privilegiato fra i ricordi della mia infanzia.
Lo sguardo, il cane, il granoturco e il cielo violetto che imbruniva sullo sfondo. Sorpassai Sandro, ultimo della fila, e scoppiai a ridere insieme a tutti gli altri. Il provinciale davanti a noi, ormai deserto, guardava diritto verso il crepuscolo, con le nubi lontane che stemperavano dal fuoco all'azzurro cupo, e infine al blu. Attraversammo di nuovo il provinciale e rientrammo in paese, dopodiché ci salutammo senza nemmeno fermare le biciclette e ciascuno prese la strada di casa sua. Una volta rientrato appoggiai la bici al muro sotto il porticato e salii in cucina: l'insalata di riso era in tavola da un pezzo e mio padre aveva già finito di cenare.

sabato 2 gennaio 2016

Hermann Buhl

1952, una domenica mattina di luglio Hermann Buhl inforca la bicicletta e parte dalla sua abitazione a Landeck, Austria, diretto alla Val Bondasca.

Chuck Yeager


La sera del 12 ottobre del 1947 Charles "Chuck" Elwood Yeager sta facendo una cavalcata nel deserto della California quando, probabilmente facendo lo spaccone, cade rovinosamente da cavallo. S'è fratturato due costole, ha un dolore lancinante al petto ma fa finta di nulla. Si fa dare qualche antidolorifico da un veterinario e il giorno dopo ritorna al lavoro come se nulla fosse: Yeager è un pilota collaudatore dell'USAF.

Atari: Game Over

Suggerimento per chi non l'avesse ancora visto (tipo il me stesso di stamattina), guardatevi Atari: Game Over. 
Cioè la storia di quando una gang di nerd con troppo denaro a disposizione è andata a scavare nel deserto ad Alamogordo -sì, proprio lì dove hanno scoppiato la prima bomba atomica- per cercare le CARTUCCE di E.T. per console Atari 2600 che a detta di molti avrebbero causato il fallimento di Atari nel 1983. La cosa interessante è che le scene di questi geek panzoni che si sparano la fila per entrare in una DISCARICA in mezzo al deserto non sono altro che stacchi che intercalano il vero contenuto del documentario, e cioè una serie di interviste ai protagonisti dell'età dell'oro dei videogame e della storia di Atari, con tanto materiale di repertorio da lagrimare forte. 

Consigliatissimo, lo trovate su Netflix.

Strange Days - Kathryn Bigelow, 1995


Il Natale è passato e ci si prepara per il capodanno: Strange Days, girato a metà anni '90 e ambientato in un futuro che ormai è remoto passato, il 31 dicembre 1999, nelle ultime ore prima del nuovo millennio.
La trama di Strange Days mette molta, moltissima carne al fuoco e la Bigelow riesce nell'incredibile compito di chiudere tutto in 140 minuti. Le nuove droghe, la fuga dalla realtà, lo stato di polizia, il caos e il degrado delle grande metropoli, i piccoli drammi umani di ogni giorno. E' pieno di spunti fantascientifici interessanti per l'epoca e sviluppò addirittura una nuova tecnica di ripresa POV per le immagini del "filo-viaggio". Da ricordare anche e sopratutto per l'atmosfera degradata che più che fin de siècle ci parla dell'ossessione degli anni '90 per la sensazione di star vivendo alla fine.... della storia.