sabato 6 agosto 2016

L'ultima casa

Il giorno che andammo alla casa arancione eravamo io, mio cugino Luca, Massimino e Sandro. Eravamo usciti in bici subito dopo i cartoni delle tredici per ritrovarci in Piazza San Giovanni, come ogni pomeriggio. Girovagammo un paio d'ore per le strade e i campi intorno al paese, dopodiché ci trasferimmo al parco giochi di Viale della Pace e, infine, salimmo al bar dell'oratorio per fare due partite ai videogiochi e comprare i ghiaccioli. Rimanemmo per molto tempo seduti sui gradini, fuori dal bar, a parlare del genere di cose che all'epoca consideravamo di importanza capitale: Tartarughe Ninja, Kenshiro, i nuovi videogiochi al bar Iside.
Fu Luca il primo a parlare della casa arancione. Sosteneva che fosse stata costruita sopra un cimitero abbandonato. Ebbi il forte sospetto che si trattasse di balle belle e buone, perché una storia simile l'avevo già sentita da qualche parte.
-E nessuno è mai riuscito a dormirci per più di una notte.
-Perché? -chiese Sandro, che era sempre l'ultimo a capire le cose
-Sei scemo? Perché ci sono i fantasmi dei morti! -gli risposi io
-Non lo so se ci sono i fantasmi, ma mio cugino mi ha detto che succedono cose di paura
-Tipo?
-Scende il sangue dai rubinetti... e si sente la musica di notte
-Se si sente la musica sarà qualcuno dei vicini con la televisione o la radio accesa -lo rimbeccò Massimino, che era fin troppo razionale già da bambino.
-Ma no! Non ci sono altre case vicino alla casa arancione e la musica che si sente è come qualcuno che suona il flauto o il pianoforte dentro alla casa!
-Ma non spararle
-Giuro!
-Io non ci credo che ci sono i fantasmi dei morti -insistette Massimino
-Neanche io -gli fece eco Luca- ma andiamo a vederla! Tanto il cantiere è aperto, ci sono passato davanti con mio papà l'altra mattina.
Io fui subito d'accordo -Andiamo a vederla! 
-Sì andiamo! -mi rispose Luca
Ma Massimino attaccò -Io non so se vengo.. bisogna passare il provinciale..
-Dai -lo rimbeccò Sandro- non lo dice nessuno a tua mamma se attraversi il provinciale!
Mentre pronunciava queste parole Sandro agitava davanti a sé l'indice della mano destra, come se volesse scrivere i suoi pensieri nell'aria. Faceva sempre così quando qualcosa lo eccitava.
-No non lo so dai.. 
-Dai andiamo adesso, altrimenti lo so già che domani non ci andiamo più
-Dai Massi andiamo tutti, vieni anche te, altrimenti mia mamma ti vede tornare prima di me e mi chiede dove sono stato
-Va bene dai.. veloce però
-Ok promesso -dissi io- prima che inizia a tramontare torniamo
-Ok andiamo
In meno di un minuto eravamo già lontani, giù per la discesa del Viale della Pace e dritti attraverso Piazza San Giovanni, deserta in quella calda ora pomeridiana. Attraversammo l'incrocio con Via dei Caduti a chiodo e senza nemmeno guardare, una precauzione che a quell'età ignoravamo di frequente.
Ricordo l'euforia di quella corsa in bici; non sentivamo la fatica, non sentivamo il caldo, non sentivamo le gambe né le braccia. Ero tutto teso verso l'avventura imminente, immerso, affogato nell'estate calda e gialla del nostro piccolo mondo. In quegli anni eravamo ancora un piccolo comune di mille, milleduecento abitanti, eppure -complice il fatto che all'epoca ci allontanassimo dal paese solo per andare in vacanza durante l'estate- il territorio dei dintorni mi sembrava immenso e sterminato.

Per farla in breve, non c'erano molte ragioni per lasciare i confini del paese, ma quel giorno era diverso: per arrivare alla casa arancione avremmo dovuto attraversare la strada provinciale che delimitava il nostro territorio a sud, e avvicinarci al brullo confine con il paese vicino. Raggiungemmo il provinciale passando esattamente di fronte alla casa dei miei genitori, ma io sapevo che quel pomeriggio mia madre l'avrebbe passato da mia nonna e non mi preoccupai di essere visto.
Fermammo le bici sulla linea di arresto che dava sul provinciale, ciascuno strisciando la ruota posteriore, quattro tracce nere sull'asfalto rovente. Di fronte a noi le auto passavano pigramente ma con fin troppa frequenza. Alle nostre spalle si stendevano i campi di mais dorato e molto, molto più indietro, le radici delle colline con i loro boschi intricati. Dall'altro lato del provinciale c'era una distesa incolta e piena di erbacce ingiallite dalla calura, chiazzata di macchie bruciate. Poco più a est c'era un campo di granoturco e, più avanti, la casa arancione. Oltre la casa arancione c'era il cartello con il nome del paese sbarrato da una linea rossa. Ricordo che il sole a quel punto cominciava già a tingersi di rosso, e la cosa mi stupì. Non portavamo orologi ma regolavamo i nostri ritmi biologici sulla lunghezza dei giorni attraverso le  stagioni, così sapevamo perfettamente quando era ora di tornare a casa. Poco prima, quando eravamo partiti dal Viale della Pace, avrei giurato che fosse molto più presto, intorno alle diciassette, ma se il sole cominciava già ad incamminarsi verso il tramonto dovevano essere almeno le diciannove.
-Facciamo in fretta -dissi.
Aspettammo che una grossa autocisterna ci passasse davanti ed attraversammo. Prendemmo a sinistra e pedalammo in direzione del campo di granoturco. In pochi minuti raggiungemmo uno spiazzo accanto alla strada, delimitato da un muro di pietra grezza con una vasta apertura sul lato destro. Questo varco ci diceva che in un futuro molto prossimo quell'accesso sarebbe stato sbarrato da un cancello di grandi dimensioni. Ora però era aperto, e nei dintorni non c'era nessuno a impedirci di attraversarlo.

La casa arancione era un cantiere interminabile, nessuno di noi ricordava quando erano cominciate le ristrutturazioni e nessuno ci aveva mai visto nessuno lavorare. Eppure i lavori, per quanto lentamente, procedevano: lo scivolo in cemento che dai nostri piedi scendeva alla rimessa interrata era una realizzazione recente. La casa arancione ci guardava dritto in faccia, le finestre prive di imposte, assolutamente inespressive. Il prato sul retro si apriva direttamente sul campo di granoturco, seminato fitto fitto e con i fusti verdi già alti due metri.
-Eccola -dissi.
Per qualche istante rimanemmo in silenzio ad osservare la casa. Guardai il sole alla mia destra: aveva già raggiunto l'orizzonte. "Strano" pensai.
-Dai allora, chi scende per primo? -chiese Luca
-Sei tu che hai tirato fuori questa storia -dissi- scendi te!
-No io non scendo!
-Ma cosa, hai paura adesso?! Scendiamo tutti insieme allora!
-No io non vengo!
-Neanche io
-Io non vengo e poi è tardi dobbiamo tornare!
-Che cagainbraga! Avete parlato tanto, adesso vado giù io così vedete che non c'è proprio niente di strano in questa casa! Sandro, tienimi la bici.
Scesi dalla bicicletta porgendo il manubrio a Sandro. Tutti gli altri se ne stavano in sella con le mani sul manubrio, un piede a terra e l'altro sul pedale, pronti a scattare al primo segnale di pericolo. Una formazione da fuga che assumevamo del tutto spontaneamente ogni volta che stavamo per combinare qualcosa di grosso.

-Allora vado.
Mi voltai e cominciai  a scendere la rampa di cemento. Diedi uno sguardo intorno, scendendo. Una betoniera arrugginita e incrostata se ne stava abbandonata fra le erbacce alla mia destra come la carcassa di un animale preistorico. Alla mia sinistra un marciapiede in cemento grezzo correva intorno alla casa e, più sotto, c'era l'apertura del box auto priva di basculante, chiusa soltanto da un cellophane inchiodato al falso telaio in legno. Raggiunto il fondo della rampa mi fermai. Sentii un fruscio alla mia sinistra. Il cellophane che chiudeva il box stava ondeggiando, avanti, indietro, sollevandosi a poco a poco sempre di più. Qualche insetto aveva iniziato a frinire, nei campi. D'un tratto udii un rumore più deciso e irruento, come di fogliame che viene spostato. Voltai di scatto la testa e, in un istante che durò un eternità, vidi un'apertura allargarsi nel granoturco arrossato dal tramonto, ed un'enorme massa nera balzarne fuori. Il cane cominciò ad abbaiare mentre correva verso di me. Il tempo, che sembrava essersi dilatato, riprese a correre a tutta velocità.

Senza nemmeno accorgermene mi ritrovai a risalire la rampa correndo a rotta di collo, mentre l'abbaiare del cane si faceva sempre più forte e frastornante. Ebbi l'impressione che stesse abbaiando in un megafono. Feci appena in tempo a vedere la mia bicicletta cadere a terra mentre gli altri ripartivano a razzo gridando come matti. Nell'abbaiare furioso del cane si distingueva anche un altro suono, secco e frenetico: il rumore delle zampe sul cemento. Quello dev'essere stato lo scatto più grandioso della mia carriera atletica perché incredibilmente raggiunsi la cima della rampa indenne e con un solo movimento rimisi in piedi la bici, saltai in sella e diedi la prima poderosa pedalata. Le altre seguirono rapide come lo stantuffo di una locomotiva. L'abbaiare calò d'intensità e capii di averlo seminato. Avevo quasi raggiunto i miei compagni e mi voltai a guardare indietro: quel cane, grande e tutto nero, mi guardava dallo spiazzo accanto alla strada dov'eravamo stati tutti e quattro pochi istanti prima. Non abbaiava più ma nella sua espressione c'erano disappunto e disprezzo. Non ho mai dimenticato quello sguardo, tanto che ancora oggi occupa un posto privilegiato fra i ricordi della mia infanzia.
Lo sguardo, il cane, il granoturco e il cielo violetto che imbruniva sullo sfondo. Sorpassai Sandro, ultimo della fila, e scoppiai a ridere insieme a tutti gli altri. Il provinciale davanti a noi, ormai deserto, guardava diritto verso il crepuscolo, con le nubi lontane che stemperavano dal fuoco all'azzurro cupo, e infine al blu. Attraversammo di nuovo il provinciale e rientrammo in paese, dopodiché ci salutammo senza nemmeno fermare le biciclette e ciascuno prese la strada di casa sua. Una volta rientrato appoggiai la bici al muro sotto il porticato e salii in cucina: l'insalata di riso era in tavola da un pezzo e mio padre aveva già finito di cenare.

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