giovedì 3 luglio 2014

Un giorno di ordinaria Albania

Estate 2013. Io e Natasha stiamo attraversando i Balcani a bordo della Ka, diretti in Grecia.
Dopo aver passato la giornata visitando Dubrovnik, scendiamo lungo la costa Montenegrina e piantiamo la tenda in un placido campeggio a due passi da una spiaggia nella zona delle Bocche di Cattaro. La sera, dopo cena, mi dedico alla mia occupazione prediletta in viaggio, e cioè armeggiare con mappe e carte come uno scafato esploratore.

-Nataljna -dico- il programma per i prossimi due giorni è di prendere per il Durmitor, dove passeremo la notte domani, dopodomani ripartiamo direzione Kosovo e in serata dovremmo essere a Skopje. Poi da lì andiamo giù verso il lago, a Okhrid.
-Non c'ho capito niente, basta che non ci fermiamo a dormire in Kosovo.
-Niente, controllando le cartine ho riconsiderato i nostri programmi.
-Eh
-Se domani continuiamo giù per la costa, entriamo in Albania in mattinata, traversiamo qui e già domani pomeriggio saremo a Ohrid.
-Basta che non ci fermiamo a dormire in Albania.
-Vuol dire risparmiare due giorni di viaggio o tre, tre giorni in più al mare in Grecia
-Yeh



Il mattino ci alziamo presto, smonto la baracca mentre il caffé sale, carico la macchina, partiamo. I paesaggi sono magnifici, l'isola di Sveti Djordje meravigliosa. Atterriamo in Albania al valico di Sukobin. I montenegri in divisa seguono la normale prassi doganale per i viaggiatori in uscita, cioè se ne sbattono il cazzo, al di là, in Albania, la dogana è una delle più scrause che abbia mai visto, ci sono un paio di cabine con poliziotti con la faccia da grulli e l'espessione di Claitus dei Simpson stampata in viso. Accosto l'auto, il bifolco allocco col cappello da sbirro mi fa segno di passare: siamo ufficialmente albanesi. Non hanno voluto vedere passaporti, libretti, patenti, qualsiasi forma di documento, niente: non gliene frega un cazzo. L'altro lato sembra già l'ingresso di un campo rom, il paesaggio rispetto al verde Montenegro è arido e affollato di relitti e mosche, ma si sa, le zone di frontiera son degradate. Abituato durante il Mongol Rally dell'anno precedente a sottoscrivere un'effimera quanto inutile assicurazione auto temporanea all'ingresso di ogni paese, e dal momento che la carta verde della Ka non copre i viaggi in Albania (chissà perché) mi dirigo verso una sorta di cabina telefonica blu riadattata ad ufficio intorno alla quale staziona una piccola ciurma di preadolescenti cenciosi con il taglio a scodella e una lieve peluria posizionata a bella posta sopra il labbro superiore. Sembrano giovinetti messicani, il poliziotto con ray ban scuri in piedi fuori dal bar adiacente l'ufficio assicurativo, gonfio e sudato, sembra messicano pure lui. Il sole martella. Ai tavoli in veranda facce da patibolo discutono animatamente di fronte a boccali di birra.

-Devo scendere a fare l'assicurazione.
-Mi chiudo dentro.

Scendo dall'auto e mi dirigo baldanzoso verso la cabina telefonica, accompagnato dal suono dello scatto delle serrature dell'auto, consapevole che se comincerà a piovere merda sentirò la Ka sgommare in direzione Europa a velocità luce. Fra i piccoli messicani incredibilmente ce n'è uno che parla italiano, Albania avanti 1-0, la questione dell'assicurazione si risolve brevemente con 23€ ed un foglio che pare uno di quegli attestati che rilasciano senza onore a chi ha frequentato un corso serale di degustazione caprina, con la cornice ornamentale, il nome del partecipante in corsivo al centro e la firma fotocopiata del relatore. Meglio non approfondire il genere di copertura fornita da quest'assicurazione, valida per una settimana in territorio albanese.
Ripartiamo seguendo le indicazione per Shkoder, ovvero Scutari, città affacciata sull'omonimo lago che tante forti braccia ha fornito all'edilizia bergamasca. Naturalmente, come in ogni località extra-europa che si rispetti, qui le grandi vie di comunicazione attraversano il centro di ogni città, cittadina e villaggio con estrema precisione, rendendo il traffico urbano ed extra-urbano un apocalisse di auto scassate, motociclette, carretti trainati da muli e cavalli, rickshaw e... wait what?!

Forse ho visto male. M'era parso di vedere l'equivalente meccanico di un Centauro con la testa di carretto ed il corpo di scooter.
No.
Eccone un altro.
A tutta prima si direbbe un abile lavoro di seghetto a mano e saldatrice. I ragazzi che governano questi mezzi tengono il carretto come fosse un manubrio e lo spingono avanti a sé accelerando col pezzo di cinquantino che hanno sotto il culo. Non ho idea di come facciano a frenare.
Schiviamo orde di questi trabiccoli e finalmente siamo fuori città, su quello che pare un abbozzo di tangenziale.
A questo punto dobbiamo seguire per Lezhe per poi raggiungere Tirana. Rotatoria, cartelli: zero. L'unica soluzione è chiedere ad un passante, e di nuovo, incredibilmente, il gentilissimo quarantenne che fermiamo ci parla in un perfetto italiano, ci indica la direzione, e ci saluta con un arrivederci.
Non par vero, in Albania hanno l'autostrada. Se inizia qui, a cento chilometri da Tirana, c'è da pensare che potremo seguirla per almeno duecento chilometri. Balle, l'autostrada s'interrompe dopo uno scollinamento, sono le dieci e il sole picchia già come un minatore nigeriano, l'autostrada riprende, siamo in una sorta di spianata post-atomica stile Ken il guerriero, accanto alla strada sorgono decine, centinaia di costruzioni recenti che ospitano ristoranti al piano terra. Il primo piano non c'è, semplicemente non sono state terminate e ci sono tondini d'acciaio che spuntano dal soffitto in cemento armato in corrispondenza delle colonne portanti. Fra alti e bassi seguiamo questa strada per più di un'ora, convinti di fermarci a pranzare in una di queste stamberghe, ma Tirana ci coglie all'improvviso, ci si srotola addosso e non possiamo far altro che farci trasportare dal magma caldo delle automobili che s'infilano a bomba in pieno centro città fra urla e afrori. Pure qui è una parata di carretti, ibridi, auto di lusso accanto ad altre buone per lo sfasciacarrozze, la rete elettrica e telefonica è una giungla di cavi volanti che si dipanano per l'aria come liane e si radunano intorno a pali in legno rinsecchito o cemento sbeccato a mò di ragnatele. Il casino è ovunque, le auto in doppia e tripla fila, i marciapiedi dissestati affollati di uomini e donne e bambini e, le case sono vecchie e decrepite, altre costruzioni sono nuove ma brutte, in centro i palazzi residenziali d'epoca hanno facciate dipinte a colori vivi, verde, fucsia, giallo, interi quartieri fatti di abitazioni mono/bifamiliari con la cisterna per l'acqua sul tetto fanno pensare a seri problemi di rifornimento idrico. Il caos si acuisce man mano ci avviciniamo al centro, disperando di che direzione prendere ci agitiamo, ne vediamo di tutti i colori. Un'auto parcheggia, una portiera si apre. Scende una nana pittata come una battona, con occhiali da sole a forma di cuore per celare (malissimo) laidi sguardi ferali, ormai sono certo di trovarmi nel pieno di un sogno psicotropo, faccio un test di realtà, positivo, è tutto vero. A un certo punto, non so come, siamo fuori Tirana, ora dobbiamo seguire per Elbasan, è quasi l'una e siamo affamati come pantere, quando abbiamo fame io e la Nataljna litighiamo come gatti fra soffi e artigliate. I ristoranti ci sfilano accanto ma inspiegabilmente non riusciamo a fermarci, procediamo come per inerzia nello spazio interplanetario. Sto guidando ancora io, ad un certo punto su una strada circondata da boschetti di conifere vedo quello che mi sembra un ristorante all'interno di una gradevole costruzione a due piani con tetto spiovente a coppi rossi, si trova esattamente di fronte a me nel punto di tangenza di una curva, con una manovra degna di Frank Borman abbandono la traiettoria e mi fiondo nel parcheggio lato strada adiacente il ristorante. Ci siamo. Per assurdi timori legati a certi pregiudizi sull'onestà degli abitanti del paese che ci ospita, decidiamo di non lasciare in macchina alcunché di valore, così con portafogli, portadocumenti, cellulare e macchina fotografica varco la soglia del locale. La sala è ampia, le finestre grandi ma strategicamente ombreggiate dalla vegetazione. Il soffitto basso, domina il legno scuro. Gli ambienti sono divisi da colonne e parapetti in legno che separano dal corridoio centrale dei soppalchi alti una spanna su cui sono piazzati ampi tavoli rotondi. La luce del giorno cede il passo alla frescura delle ombre, sembra il ristorante abbandonato in cui i Goonies incontrano la Banda Fratelli.

-Aspetta qui -dico a Naty.

Mi dirigo verso il fondo del corridoio, un uomo tarchiato con capelli e baffoni neri alla Angolo di Roberto pare pietrificato contro il bancone. Lo sguardo è assolutamente assente, fissato contro l'ingresso dal quale sono appena passato.

-Buongiorno -esordisco in italiano, ormai certo che gli albanesi di tutte le età lo imparino alla scuola primaria.

Nessuna risposta

-Vorremmo pranzare, siamo in due.

Il tizio respira, vive, ma si comporta come se accanto a lui non ci fosse assolutamente nessuno a favellar nel tono più cortese.

-Mangiare, cibo

Gli occhi di Roberto da Crema ruotano e finalmente inquadrano me, un individuo vestito come un negro che si appresta a giocare a pallacanestro con gli amici delle fogne di Pittsburgh.

-Mangiare, food, lunch

Incomincio a sentirmi un deficiente. Un anno prima, in una situazione analoga, per spiegare a dei ristoratori kazaki dallo sguardo assente che volevamo mangiare della carne, il mio compagno d'avventure Zapcal aveva mimato il gesto di darsi un pizzicotto al braccio per poi portarsi le dita alla bocca. Mentre comincia a farsi strada in me l'umiliante prospettiva di dover mimare il gesto di mangiare come Daniel Jackson in Stargate, vengo soccorso da un uomo di mezz'età con occhiali e abbigliamento giovanile che parla un discreto italiano.

-Buonciorno, volete di mangiare giusto?
-Certo! Certo! Grazie mille!

Il tipo comunica in albanese con Roberto, il quale incredibilmente si attiva tutto insieme e si muove come un robot a cui hanno dato corrente. Risponde al tipo, parlottano un po'.

-Da mangiare ciè carne di... mishqeni.. come dite...
-Manzo?
-No no..
-Agnello?
-Anielo sì, poi patate, formadji..
-Sì sì va bene, perfetto, grazie mille!

Roberto da Crema ci guida ad un enorme tavolo rotondo, il tipo torna al suo dove lo aspettano moglie e figlia adolescente carina ma abbigliata da truzza. Veniamo apparecchiati in una profusione di crismi e cortesie, mi domanda qualcosa, non capisco un cazzo ma tiro a indovinare rispondendo "coca cola" che è una delle risposte universali. Lui mi guarda come se fossi scemo, sparisce, poi torna con un piatto di pomodori ed una ciotola di insalata. Poi porta un piattino con una forma di formaggio del diametro di circa venti centimetri, alta cinque. Poi arrivano le olive, poi altri due/tre piatti. Poi un cesto di pane a fette. Poi arriva una marmitta colma di patate fritte e, infine, un grande piatto da portata su cui troneggia una montagna di carne arrostita fumante tagliata al coltello. Segue una pausa, torna con una bottiglietta di coca cola in pvc.
Il tavolo è grande, seduti uno di fronte all'altra più d'un metro ci separa, eppure non c'è un angolo libero, è un banchetto medievale, tutto è talmente abbondante che non riusciamo a mangiare nemmeno la metà di ogni portata. E chi mi conosce sa bene quanto grande sia il mio appetito in queste circostanze. Il formaggio (che naturalmente Natasha non tocca nemmeno per sbaglio) è fortissimo e salato. La carne è saporitissima, morbida, calda, grondante untume. Le patate sono state tagliate e fritte in casa, poi cosparse di origano.
Abbiamo ancora molta strada da fare, a malincuore mi alzo dal desco e torno al bancone a trovare il mio baffuto amico. Estraggo il portafogli sperando afferri le mie intenzioni, ma naturalmente capisce al volo. "When they do not speak english, they speak dollars", dice il proverbio. Il tipo mi spara una cifra in Lek albanesi che non ricordo assolutamente. Non ho cambiato nulla in moneta locale, indico gli euro nel mio portafogli e le carte. Segue la solita bagarre del cambio clandestino, alla fine si prende quindici euro, ma vuole darmi il resto, ci tiene perché a giudicare dal gesticolare che fa deve trattarsi di una somma importante, io però non so che farmene di questi soldi fottuti quindi gli lascio tutti e quindici gli euro e lo saluto generando un fungo atomico di inchini baciamani e ringraziamenti. Saluto anche il tavolo del tizio che parlava italiano, usciamo, usufruiamo della toilette del luogo (rigorosamente all'esterno e separata dal locale, come da noi non si vede più nemmeno nelle peggio trattorie) e risaliamo in macchina.

Ora ci diamo il cambio, guida Natjuska.
Il pomeriggio è caldo, più caldo del mezzogiorno. Dopo un'ora e mezza su strade semideserte in un paesaggio brullo, cominciamo a vedere dei rilievi in lontananza. Ci diamo di nuovo il cambio alla guida. Naty prende dal retro la bottiglia d'acqua che avevo comprato il mattino, beve un sorso.

-E' imbevibile? -chiedo

La risposta è un mugugno accompagnato da un movimento del capo che interpreto come un "no, si può bere".
Afferro la bottiglia e prendo una generosa sorsata. E' urina di cavallo bollita. Il finestrino è abbassato, sporgo la testa e erutto dalla bocca un getto incandescente di merda distillata, sbando, riprendo il volante mentre le mie orecchie vengono colpite da uno stridio di gomme alle mie spalle. Natalina sta imprecando, guardo nello specchietto, c'è la macchina di un albanese con i tergicristalli che si muovono mentre il guidatore gesticola nella mia direzione.

-Ci mancava solo di sputargli addosso a sta gente! -soffia la gatta.

Estraggo il braccio sinistro dal finestrino in quella pantomima del saluto romano che, almeno in Italia, rappresenta un gesto di scusa, dopodiché premo a tavoletta sull'acceleratore.
Il tipo, stranamente, sembra accettare le mie scuse e si lascia seminare senza battere ciglio. Fosse successa alla medesima latitudine in Italia, una cosa del genere, probabilmente sarebbe finita a revolverate.
La strada comincia a salire, segno che ci stiamo avvicinando al confine Macedone. Ci troviamo ad attraversare certi centri abitati in cui, curiosamente, da numerose abitazioni fuoriescono dei tubi da giardino che riversano acqua lungo la strada. Ci sono almeno 35° di fuori, non c'è una nuvola in cielo, sembra di stare in Arizona e questi innaffiano l'asfalto come se dovessero piantarci rape. Comincio a notare dei cartelli fatti a pennarello o vernice che recitano "LAVAZHI", lavazhi, cazz'è? Dopo attenta riflessione ed anedottica natalinica concludiamo che la zhi finale in albanese probabilmente si legge come la dje del cirillico, e quindi la parola dovrebbe suonare come "lavagi". Effettivamente, qualcuno che lava l'auto c'è. 35°, arizona, arsura... a conti fatti ci sono più autolavaggi artigianali che auto da lavare, e questi buttano l'acqua in strada.
Niente, infine raggiungiamo la sommità di queste formazioni orografiche e, in breve, il valico con la Macedonia. Incredibilmente i bifolchi travestiti da poliziotti all'uscita decidono di fermarci e di fare accostare l'auto. Un attrippato sui quarantacinque mi fa scendere, chiede di aprire il baule, indica la nostra mercanzia e poi piano, piano, mi ripete per qualche volta la parola "tip, tip". La regola è sempre la stessa, far finta di non capire. Gesticolo, allargo le braccia scuoto la testa nel mio migliore indian headshake, alla fine il tipo si arrende. Proseguiamo verso il controllo in uscita, il bifolco nr.2 vuole vedere i nostri documenti, mi chiede in tutta naturalezza ten euros, guardo la signorina al mio fianco, guardo lui, mollo questi dieci cazzo di euro, mi riprendo i documenti e sgommo via con la precisa sensazione d'esser stato preso per il naso come un coglione qualunque.
Raggiungiamo Ohrid in mezz'ora, troviamo allogio in una stanza in un villino grazie al proprietario che ci adesca per strada, un tipo con la figlia che studia a Bologna e il moroso terrone.
Doccia, barba, usciamo a visitare la città vecchia nel tardo pomeriggio. Alle venti siamo clienti di una pizzeria con tavoli all'aperto in una piazza ciotolata, fresca e tranquilla di fronte a Santa Sofia e bellissima vista sul lago di Ohrid.

Siamo entrati in Albania indiavolati e carichi di pregiudizi. Come nazione è un casino micidiale, questo è vero, eppure ho la sensazione che dopo un paio di giorni potrei perfino apprezzarlo tutto quel caos. Basta trovarne la chiave. In fin dei conti, a parte quei due sbirri di merda che volevano fottermi in dogana, non ho trovato altro che persone cordiali, gentili all'inverosimile e, cosa incredibile, che parlavano la mia lingua. Se sei un inglese o americano qualcuno che parla la tua lingua lo trovi ovunque, nel mondo, idem per spagnoli e francesi. Per tutti gli altri, seghe. In seguito, approfondendo la storia dell'Albania, ho scoperto un paese strettamente legato all'Italia, al punto che durante il primo dopoguerra e prima dell'invasione vi furono "prove tecniche" di amministrazione condivisa accolte con discreto entusiasmo da parte degli albanesi. Fu in questo periodo che prese piede l'insegnamento della lingua italiana nelle scuole albanesi, e probabilmente è per questa ragione che ho incontrato tanti parlatori italiani in Albania. Al contrario dei pregiudizi legati alla criminalità nel nostro paese, gli albanesi sono un popolo docile e allegro, a parte quando s'incazzano per faide familiari che finiscono in scontri a fuoco, ma questi sono dettagli legati a certe aree rurali che non rappresentano lo standard del paese. Un po' come in certe zone innominabili dell'Italia... ooops.
La buona disposizione degli albanesi nei confronti degli italiani è certamente legata anche ai fatti sanguinosi del 1997, quando in un periodo di riots generalizzati qualcuno aprì i depositi di armi ed il normale caos albanese si tramutò in un casino micidiale in cui ogni albanese imbracciava un mitra. Il governo Prodi inviò 7000 soldati italiani inquadrati nell'operazione Alba, i fuochi si spensero, le armi sparirono e gli albanesi tornarono a rosolare vitelli. In capo a qualche mese non se ne parlò più. Ma penso che, sotto sotto, il nostro piccolo contributo alla pacificazione gli abbia fatto piacere. Oh, bé, di certo non sono tutti quanti buoni e innocenti, ci sono intere aree del paese in mano a trafficanti di droga armati fino ai denti che respingono la polizia a colpi di mortaio.
Tornerò mai in Albania? Boh. Nel frattempo, è arrivata la pizza salami che ho ordinato. Ci sono sopra non meno di cento fettine di una sorta di insaccato cilindrico di carne marroncina. Svuoto il bicchiere, ordino un'altra birra.

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